martedì 28 novembre 2006

Notiziuncole eventi vari :)

Soul Makossa ospita Papa Wemba

Il 2 Dicembre al Pala Martino

Ancora un evento per la settima edizione del Soul Makossa 2006 Festival Interetnico della Musica e del Teatro. Il 2 dicembre alle ore 21.00 concerto di Papa Wemba al Pala Martino. Cantante estroverso crea un nuovo aggressivo afro pop denominato “rhumba rock”. L'evento è organizzato da Abusuan, l'assessorato al Mediterraneo dlla Regione Puglia, l'assessorato alla Cultura della Provincia di Bari e l'assessorato alle Culture e Religioni e quello al Commercio del Comune di Bari.

Mostra di Natale al Mongolfiera

A Japigia dal 26 novembre 2006 al 6 gennaio 2007

Al Centro Commerciale Mongolfiera di Bari Japigia è quasi Natale! Da martedì 21 novembre al 6 gennaio nella galleria del Centro Commerciale Mongolfiera a Japigia è stata allestita una Mostra di Natale. Caratteristiche opere di artigianato, presepi e simpatici oggetti legati alla tradizione natalizia ravviveranno la galleria. Realizzata in collaborazione con artisti e associazioni culturali, la mostra permanente allieterà le passeggiate e lo shopping nel Centro. Anche questa iniziativa rientra nella vision del Centro Commerciale di Bari Japigia, un centro divenuto ormai parte integrante del quartiere. Le diverse iniziative intraprese negli anni mostrano la forte volontà di far parte della vita quotidiana dei baresi e di sviluppare un forte radicamento nel territorio circostante.

Uno sguardo in Periferia

A Triggiano la mostra di Pino Pavone dal 1 dicembre 2006 al 17 dicembre 2006

Periferie - sguardi sul nostro paesaggio. Venerdi 1 dicembre alle 19 presso il Palazzo Comunale di Triggiano (Palazzo Pontrelli) si inaugura una mostra collettiva sul tema della periferia ideata da Pino Pavone.
La mostra sarà aperta tutti i giorni fino al 17 dicembre con i seguenti orari: 10.00 - 12.30 / 18.00 - 21.00

Il Giardino Babele del Teatro Kismet

Domenica 10 dicembre h 21.00 Css Teatro Stabile d’innovazione del FVG / balletto civile "I sette a Tebe" liberamente tratto da I sette contro Tebe di Eschilo;

Progetto speciale 19 / 21 Gennaio h 21.00 Studio su Medea Venerdì 19 h 21.00 Capitolo I Medea & Giasone Sabato 20 h 21.00 Capitolo II Medea & Figli Domenica 21 h 18.00 Capitolo I, h 20.00 Capitolo II e h 22.00 Capitolo III Medea DeaAntonio Latella elaborazione drammaturgica Federico Bellini regia Antonio Latella con Nicole Kehrberger Michele Andrei, Giuseppe Lanino, Emilio Vacca musiche Franco Visioli luci Giorgio Cervesi Ripa costumi Rosa Futuro, Tobias Marx foto Anna Bertozzi movimenti coreografici e regista assistente Rosario Tedesco;

Mercoledì 28 Febbraio e 1 e 2 Marzo h 20.00 c/o la Sala prove al Fornelli Teatro Kismet Oper AA B. a Samuel Beckett primo studio Lello Tedeschi;

Venerdì 16 Marzo h 17.00 incontro c/o CUTAMC str. S. Giacomo – Borgo Antico Immaginario Pasoliniano con i Motus saranno proiettati materiali video;

Mercoledì 2, Giovedì 3 e Venerdì 4 Maggio h 20.00 c/o la Sala prove al Fornelli A B. a Samuel Beckett studio finale Lello Tedeschi ;

I Deep Purple ad Andria

Ad Andria il 13 Marzo 2007

Il 13 Marzo prossimo arrivano i "Deep Purple", una delle storiche band della musica hard rock. Un appuntamento imperdibile per gli amanti del rock più duro, con un gruppo internazionale di primissimo piano che ha segnato pagine memorabili nella storia della musica moderna. La realizzazione del concerto è curata dalla Delta Concerti: costo dei biglietti 34-50 euro.

Etichette: ,

sabato 25 novembre 2006

La storia dei Griffin ^^

Etichette:

giovedì 23 novembre 2006

M.a.s.h.



















Regia: Robert Altman
Cast: Sally Kellerman, Donald Sutherland, Elliott Gould, Robert Duvall, Tom Skerritt, Roger Bowen
Genere: Commedia
Durata: 116 minuti
Produzione: USA 1970
Trama: Il film racconta la storia di un'équipe di chirurghi in un ospedale militare che se la ridono della disciplina e non si preoccupano di andare incontro a sanzioni, dimostrando tutto il loro disprezzo per la guerra. Commedia satirica, graffiante che, andando al di là delle intenzioni stesse dello sceneggiatura, mette a nudo l'ipocrisia ufficiale durante la guerra di Corea. Dissacra tutto, anche i caduti in quella sporca guerra. Sul piano formale si tratta di uno dei grandi capolavori del cinema. Altman stupisce per la capacità di adoperare un linguaggio realistico e per l'abilità nel montare insieme realismo e satira, lasciando il pubblico incerto sulla natura di quello che sta vedendo.

Alberto Moravia
Mash di Robert Altman è un film di guerra che ha vinto il premio ai festival di Cannes probabilmente perché è un film di guerra. Allora Cannes sarebbe diventato un luogo di riunione di coloro che un tempo venivano chiamati “guerrafondai”? Tutt’altro, il film senza dubbio è stato premiato perché considerato pacifista. Vediamo adesso se questo pacifismo risponde a verità. Secondo i polemologi, la guerra sarebbe una specie di salasso che certe nazioni le quali hanno troppo di qualche cosa (troppi uomini, troppa ricchezza, troppi prodotti, troppi quadri dirigenti, troppi disoccupati, ecc. ecc.) infliggono a se stesse più o meno inconsciamente. Quanto dire che le guerre non si farebbero perché non si ha qualche cosa e si vuole derubarne il vicino; ma perché si ha troppo di qualche cosa e ci si serve del vicino per iiberarsene. Per esempio i paesi poveri hanno troppi uomini mentre i paesi ricchi hanno troppe ricchezze. Ecco una guerra già pronta. Attraverso la guerra, ricchezza e popolazione saranno “sgonfiate”. In realtà questo è avvenuto in Europa durante gli ultimi due secoli. La bomba atomica non modificherebbe questo stato di cose. Essa sarebbe semplicemente un’arma alla misura delle masse. Ma perché c’è troppo di qualche cosa? È qui che Mash, film apparentemente pacifista ma in realtà bellicoso, può dare una risposta. C’è troppo di qualche cosa allorché c’è repressione ossia deviazione di energia per fini aggressivi. In Mash si racconta la vicenda di due chirurghi buontemponi e goliardici ma bravissimi nella loro professione i quali, capitati durante la guerra di Corea in un ospedale da campo, si fanno beffa delle convenzioni che sono proprie della società militare. Il loro bersaglio preferito è un capitano grande lettore della Bibbia e nell’intimità (relativa) della propria baracca grande cacciatore di gonnelle. Il capitano salta addosso a un’infermiera e non si accorge che un microfono permette ai suoi due colleghi di registrare i gemiti, i ruggiti e le rumorose agonie dell’amore. Svergognato, il capitano dà in escandescenze e viene portato via di peso tutto legato in una camicia di forza. Abbiamo detto che la repressione è all’origine della guerra. Ora tra il capitano ipocrita che va a letto con le infermiere e i due chirurghi che lo svergognano, non c’è dubbio che i repressi sono questi ultimi. Noi sappiamo infatti che il capitano finge di essere religioso ma in realtà ama le donne; ma non sappiamo affatto cosa amano i due chirurghi, perché essi non fingono e non sono ipocriti e quello che fanno (operare i feriti di guerra) io fanno bene e sul serio. Così in mancanza di altre spiegazioni, bisogna pur credere che essi non amano le donne ma soltanto il loro mestiere cioè la guerra. Repressi ed efficienti, ce l’hanno con il capitano non già perché è ipocrita ma perché non è represso e dunque, probabilmente, non è efficiente. Del resto il film ha una sua atmosfera che puzza di caserma lontano un miglio. Non è la caserma prussiana, d’accordo; è la caserma anglosassone, kiplinghiana, hemingweiana, dove si scherza e si prende in giro la guerra ma per farla meglio. Le beffe che i due chirurghi goliardici combinano contro i loro colleghi militaristi hanno sempre per agente catalizzatore il sesso. Ma i due allegroni, loro, sono casti. Così il militarismo si manifesta per quello che è: una repressione così completa è così profonda che non resta che ridere e scherzare e fare la guerra. Come sempre avviene in film dei genere, gli attori sono bravi ma di una bravura che sfiora pericolosamente il luogo comune simpatico e pseudo-liberatorio. Donald Sutherland e Tom Skerrit, tra uno scherzo e l’altro, si immergono fino al naso nel sangue delle sale operatorie. Sembrano, con la loro allegria di buon augurio, due ostetrici che presiedono alla nascita di nuove esistenze. In realtà mettono la loro scienza al servizio di quello che qualcuno ha chiamato un infanticidio collettivo ritardato. Cioè della guerra.

Tullio Kezich
La sigla del titolo significa Mobile Army Surgical Hospital e sta a indicare un ospedale chirurgico da campo durante la guerra di Corea. Sceneggiato da Ring Lardner jr (che fu uno dei «10 di Hollywood» vittime della caccia alle streghe) e diretto da Robert Altman (un esordiente di grossa esperienza televisiva), M.A.S.H. si colloca fra il dottor Stranamore e il gusto di Luis Buñuel. Almeno per la prima mezz’ora il film ci fa assistere, con incredibile spregiudicatezza, a situazioni farsesche trasferite nell’ambiente dei chirurghi in uniforme: non c’è tabù militarista che Altman non sembri disposto a irridere senza mezzi termini, con un umorismo nero che fa venire i brividi per la sua stretta connessione con la realtà. Non dimentichiamo che gli Stati Uniti sono tuttora impegnati in una guerra asiatica e che la distanza del film dai fatti che narra è solo apparente. Purtroppo la grinta degli autori si spiana strada facendo, la fantasia ripiega sui modi ben noti del cinema comico e l'aggressività si brucia nel disordine di una struttura bozzettistica. La parodia dell’Ultima cena, desunta da Viridiana, è fuori luogo; le avventure boccaccesche dei due protagonisti ricordano le bonarie vignette di Bili Mauldin sulla seconda guerra mondiale. Sicché sorge legittimo il sospetto che M.A.S.H. sia soltanto una versione aggiornata e incattivita delle vecchie farse militari: tanto che ha potuto ottenere senza complicazioni diplomatiche il gran premio al festival di Cannes.

Ed ora tocca a me: Sinceramente m'è capitato di "conoscerlo" alla sua morte, nel senso che ieri per la prima volta ho visto un suo film, che penso abbiano mandato in onda su Rete4 in suo onore. Abbastanza bello il film, belle le crude scene e bello il modo di girare. Un bel film.


Alla prossima... ;)

Etichette:

mercoledì 22 novembre 2006

Altra mostriciattola... "Le personali di Vera"











































Il 19 novembre alle ore 12.00 inaugurazione di Sinfonia di Colori, mostra personale di Rachele Verroca, in arte Vera, all'Archeo Club a Torre a Mare. L'esposizione della pittrice barese terminerà il 26 novembre.


La peculiarità narrativa di Rachele Verroca, operatrice delle arti visive sta in questa analisi del circostante, che la pone un passo avanti tra i più validi espressori dell’iperrealismo paesaggistico attuale.

Ovviamente non appena vado, e se posso, mi ricorderò di pubblicare le foto per il buon vecchio Pedro :)

Alla prossima... ;)

Etichette:

domenica 19 novembre 2006

Il corpo ai confini del mito















Si inaugura sabato 18 novembre alle ore 19,00 l’evento d’arte contemporanea dal titolo “Il corpo ai confini del mito”, presso la galleria Geo Arte Contemporanea a Bari a cura di Vito Caiati e Dores Sacquegna. In mostra le opere dell’artista Fosca (Marcella Fusco) . La giovane artista napoletana proviene dal digitale e in questa ultima serie - dedicata alla mitologia con Pasifae - elabora una serie di opere composte da tele e fotografie digitali, assemblate sia come immagini singole sia in dittici e trittici.
Tela-fotografia sono di due tipi di sviluppo tecnico (manuale e digitale) che permettono all’artista di elaborare la figura del mito stesso, integrandolo nella storia contemporanea, coniugando, così, l’evento storico con l’era multimediale. La nudità oggettivata dal voyeurismo anatomico di Pasifae è presente in queste opere con interfacce tattili di corpo-pietra, corpo-linea, corpo-digitale. In questo modo il corpo di Pasifae viene mostrato come bio-materiale e la presenza di questa figura mitologica si evolve in rapporto alle tecnologie.


In attesa di trovare del tempo per andarci da solo, consiglio a tutti ^^

Alla prossima... ;)

Etichette:

venerdì 17 novembre 2006

Final Destination 3



















Regia: James Wong
Cast: Mary Elizabeth Winstead, Ryan Merriman, Kris Lemche, Alexz Johnson, Sam Easton, Jesse Moss, Gina Holden.
Genere: Horror
Durata: 115 minuti
Produzione: USA 2006

Trama: Tra le più gettonate serie horror del nuovo millennio, Final Destination arriva al terzo episodio: ancora una volta per un manipolo di teenager americani scampare al proprio destino non sarà così semplice. Dopo l’esplosione del volo 180 ed il colossale incidente autostradale, ad essere inseguiti dal nero mietitore saranno i superstiti di un giro sfortunato sulle montagne russe del diavolo. Sarà Wendy, con le proprie visioni, a salvare un gruppo di compagni di liceo dall’incidente sulla giostra, e ad innescare così la catena di morti post-datate, in rigoroso ordine di posto a sedere.James Wong e Glen Morgan, vecchie conoscenze per i fan di X-Files e di Millennium, accettano la sfida: ripresa la propria creatura a distanza di un sequel, per molti versi più riuscito dell’originale, tornano a lavorare a quattro mani sull’idea alla base della serie. La formula è la medesima, ed ecco un altro teen-horror ricco di gore e siparietti macabri pronto a raddoppiare il budget sulla fiducia. Seppur sullo sfondo di una pregevole cornice tecnica, dando disperatamente fondo a quello che a suo tempo fu giustamente acclamato come ‘concept originale’, si finisce per generare sketch stiracchiati al punto da ricordare da vicino i vari Scary Movie. La sensazione, netta, è che sia rimasto veramente poco da spremere.

Alex Stellino (Ciak)
Grazie a una premonizione, la giovane Wendy (Mary Elizabeth Winstead) scampa a un disastro in un Luna park ma si convince di aver solo rimandato di qualche giorno l’appuntamento con la morte. Con l’aiuto di un amico (Ryan Merriman) cerca di rintracciare tutti gli altri superstiti per metterli in guardia. Il regista è lo stesso del primo Final Destination e pure il meccanismo è sempre quello (al posto dell’aereo stavolta ci sono le montagne russe) ma il risultato cambia. Anche perché la rappresentazione di una Morte ostinatamente determinata e ingegnosa comincia a mostrare la corda. Si salva giusto qualche scena particolarmente truce, ma tutt’intorno è vuoto di idee. Se mai dovrà esserci un altro sequel, meglio pensare direttamente al mercato homevideo. Già questo sul grande schermo ci sta largo.

Mariarosa Mancuso (Il Foglio)
La Morte è furiosa. Non ha tutti i torti. Voleva fare un lavoretto pulito, sbarazzandosi in un sol colpo di vari studentelli piuttosto antipatici. Piano perfetto: un ottovolante con qualche perdita nel circuito di sicurezza, un carrellino bloccato con le ruote in aria, le cinghie che non reggono la gravità. Se va bene cadi nel vuoto, se va male sarai spaccato in due. Per colpa di una cretina che vede nel futuro, il fatale disegno viene sabotato. La fanciulla urlante scende dalla giostra, e con lei se ne vanno gli altri predestinati. Ora la signora con la falce li deve rincorrere uno per uno (non faceva tanta fatica a imporsi da quando, nel "Senso della vita" dei Monty Python, per via della falce veniva interpellata come il giardiniere addetto al prato), e uccidere con mezzi di fortuna: un tubetto di crema che si svuota e blocca una porta, una bibita gelata piazzata su un termostato, la vibrazione di un telefono cellulare, un po' di chiodi dimenticati in giro, spade da decorazione, lampade abbronzanti. Combinandoli insieme con un po' di esperienza, la trappola mortale riesce lo stesso, ma si capisce che una bella strage offre maggiore soddisfazione. Estetica, prima di tutto. Per non parlar del tempo risparmiato (sapevamo che la signora in nero non andava mai in ferie, ora scopriamo che lavora a cottimo). Come se non bastasse, gli studentelli cominciano a subodorare qualcosa, quindi cercano di parare i colpi. Grazie a una serie di fotografie che predicono il futuro (in uno scatto si vede l'ombra di un aereo sulle Torri Gemelle, e ancora non siamo riusciti a capire come mai fosse finita nell'album). La Morte è furiosa anche perché è già la terza volta che le fanno lo stesso scherzo, e lei ci casca sempre. Nel primo – 50 milioni di dollari incassati - i morituri scendevano all'ultimo momento da un aereo destinato a schiantarsi. Nel secondo – 40 milioni di dollari incassati – i morituri sfuggivano a un incidente stradale, tra camion con rimorchio, e cisterne con liquidi infiammabili. La terza puntata incasserà un po' meno, perché ormai manca la sorpresa. Anche la morte deve aver perso la pazienza. E smette il lavoro di fino. Invece degli incidenti domestici, che inquietavano facendo diventare pericolose le forcine per capelli e i portachiavi, ricorre a esplosivi e a cavalli imbizzarriti.

Ed ora tocca a me: Per quanto possano piacermi tipologie di film cruenti in linea di massima, questo m'è sembrato molto sulla falsa riga degli altri, scontato direi.

Alla prossima... ;)

Etichette:

World Trade Center



















Regia: Oliver Stone
Cast: Nicolas Cage, Michael Peña, Maggie Gyllenhaal, Maria Bello, Stephen Dorff, Jay Hernandez, Michael Shannon
Genere: Drammatico
Durata: 129 minuti
Produzione: USA 2006

Trama: Un ticchettio di un orologio segna il tempo. Tutto a New York si muove, lavora, sorride, vive. D'improvviso un suono sordo, muto. Inizia l'inferno.JJ Mc Loughlin (Nicholas Cage), a capo di alcuni agenti di polizia portuale, entra nelle torri per salvare le migliaia di persone intrappolate nel World Trade Center. I minuti corrono inesorabili. Inaspettato, un fragore terrificante li scuote. Collassa la prima torre. Dopo alcuni minuti la seconda. Mc Loughlin e l'agente Jimeno rimangono intrappolati sotto le macerie, senza via di scampo. Questa è la vera storia del loro 11 settembre 2001."God bless America". Sì, "Dio benedica gli Stati Uniti". Questa è la visione di Oliver Stone di quel giorno terribile, indelebile nella mente di tutti gli Americani. L'11 settembre è stato, infatti l'unico "atto di guerra" perpetrato sul territorio statunitense. Il regista, basandosi sui racconti dei due agenti sopravvissuti, racconta la vicenda umana e universale di un popolo ferito (emblematica la ripresa aerea di Manhattan, con il fumo, come sangue, che esce dalle torri) e lo rappresenta nel buio delle macerie delle Twin Towers, quasi fosse nella giungla del Vietnam, che Stone ha vissuto in prima persona. Nicholas Cage non è molto distante da quei soldati che, per difendere il proprio paese, sono andati incontro a qualcosa di più grande di loro. I momenti terribili nelle tenebre, lo sporco sui visi, le macerie, si contrappongono alla celestiale luminosità dei volti delle famiglie in attesa (Maria Bello, nel film moglie di Mc Loughlin, ha per la prima volta gli occhi azzurri) e dei ricordi che passano velocemente davanti agli occhi dei protagonisti, per dirci che per non andare all'inferno bisogna avere un angelo custode. Questo impianto parallelo, a volte manierato, riduce l'impatto emozionale, che rimane comunque molto forte per le interpretazioni efficaci di Nicholas Cage e Michael Peña.World Trade Center è il manifesto di cosa ha rappresentato quel giorno per un popolo, quello americano, che conferisce grande importanza ai valori dell'amicizia, dell'amore, della famiglia. E Oliver Stone è, ancor prima di essere un regista, un cittadino degli Stati Uniti.

Francesca Scorcucchi (Il Mattino)
Sarà un'opera di passione collettiva, un'approfondita meditazione su cosa è accaduto quel giorno, piena di compassione. Sarà l'esplorazione dell'eroismo americano e dell'umanità del mondo di fronte alla tragedia». Oliver Stone commenta così il suo ultimo film, la cui produzione è iniziata pochi giorni fa a New York, una delle pellicole più attese e temute della storia recente di Hollywood: il film sull'11 settembre, la cui produzione è stata annunciata lo scorso 11 luglio e che uscirà l'11 agosto del prossimo anno. Il numero undici ricorre con inquietante parossismo. Si tratta solo di una combinazione? Certamente non è una coincidenza la decisione di fare uscire il film un mese prima del quinto anniversario della tragedia più dolorosa della storia americana. «Il film non sarebbe mai potuto uscire nel giorno dell'anniversario per non dare l'impressione di voler strumentalizzare l'avvenimento», ha detto a «Variety» Wayne Lewellen, responsabile degli studi Paramount, che produrrà la pellicola. La delicatezza del tema trattato ha fatto sì che il primo ciak fosse preceduto da mesi di incontri con la comunità newyorkese e con le famiglie vittime dell'attentato. Le scene del collasso delle torri saranno, inoltre, girate lontano da New York, nei grandi capannoni della Paramount a Los Angeles. Le vere immagini di quel giorno passeranno solo nei televisori, sistemati sullo sfondo di alcune scene. I responsabili hanno promesso massimo rispetto e attenzione su un tema tanto delicato. «Non sarà certo in stile “Titanic” o “Inferno di Cristallo”», ha detto il produttore esecutivo Michael Shamberg, ma i parenti delle centinaia di vittime non sono del tutto certe della bontà dell'iniziativa. «Spero che useranno un certo riguardo anche se non so come potranno non urtare la sensibilità di chi, come me, è stato direttamente colpito» ha detto al «New York Times» Lee Ielpi, che nell'attentato perse il figlio vigile del fuoco. Il film, che vedrà protagonista il premio Oscar Nicolas Cage, non ha ancora un titolo. Quello che si sa è che racconterà la storia dei due poliziotti, John McLoughlin e William J. Jimeno, che per ultimi furono estratti vivi dalle macerie del World Trade Center. Cage interpreterà il sergente della Port Authority McLoughlin, che trascorse 24 ore con il collega Jimeno prima di essere salvato. Allora si gridò al miracolo ed ora il miracolo di John e William viene raccontato dal regista che meglio di altri ha saputo dipingere i momenti cruciali della storia recente americana, il regista di «Platoon», «Nato il 4 luglio» e «JFK». «Forse qualcuno soffrirà ma era ora che si raccontasse la storia della gente che era al World Trade Center il giorno dell'attacco - ha dichiarato il vero sergente McLoughlin - Quella tragedia ha spinto gli americani e la gente di tutto il mondo a lavorare insieme per aiutare coloro che avevano bisogno di aiuto». Jennifer Brown, incaricata di ricostruire Ground Zero a Los Angeles, è certa che «Non appena la gente capirà che quello che vogliamo fare è raccontare solo una particolare storia, quella degli ufficiali McLoughlin e Jimeno, allora ci sosterrà». Il film di Stone è stato il primo a partire con le riprese, ma non sarà il primo a comparire sul grande schermo. Flight 93, diretto da Paul Greengrass, il regista di Bloody Sunday (il film che raccontava un'altra drammatica storia, quella sulla protesta irlandese del 1972 che si concluse con un massacro operato dalle truppe britanniche) è previsto in uscita per aprile, o forse maggio, fa sapere «Variety», al Festival di Cannes. Il progetto, infatti, non richiederà tempi lunghi di realizzazione, solo quaranta giorni di riprese per raccontare in tempo reale, novanta minuti, cosa è successo sul quarto aereo dirottato quella tragica mattina del 2001, quello si schiantò in un campo della Pennsylvania dopo un atto di coraggio da parte dei passeggeri. Il film comincerà il racconto dal momento del dirottamento per proseguire con la scoperta, da parte di alcuni passeggeri attraverso il cellulare, che altri aerei erano stati dirottati quella mattina e erano stati lanciati contro il World Trade Center e contro il Pentagono. La notizia fece prendere ai passeggeri l'eroica decisione di sacrificare le loro vite e far precipitare l'aereo prima che questo potesse raggiungere Washington. Il copione di Flight 93, che al momento vede nel cast solo la giovane attrice canadese Meghan Heffern, sarà in parte improvvisato e Greengrass prevede l'uso di telecamere a mano per dare al film un taglio più realistico. «Credo che qualche volta - dice il regista - guardando con la maggior chiarezza e obiettività possibili a un singolo evento, si riesca a trovare nelle sue pieghe qualcosa di molto prezioso, qualcosa di molto più grande dell'evento stesso: il Dna del nostro tempo».

Lietta Tornabuoni (La Stampa)
Sulla tragedia dell’11 settembre 2001, l'attacco aereo alle torri gemelle di New York e la morte di oltre 3000 persone, Oliver Stone ha fatto con World Thade Center (fuori concorso) un film senza terrorismo, senza complotti, senza enfasi, senza politica (si vede per un attimo Bush che fa il suo telediscorso alla nazione ma nessuno ci fa caso, è come fosse un portacenere). Un film patriottico e non presidenziale né governativo, ispirato ai miti dell’eroismo americano: individualismo, altruismo, difesa delle propria famiglia. Nel film l’attacco sembra una catastrofe naturale, un terremoto. Nessun eroe va all’assalto o fa irruzione, nessuna bandiera sventola. Inchiodati dal peso delle macerie cadute loro addosso, due uomini possono fare soltanto quanto è consentito nel nostro tempo por restare vivi: conservarsi svegli, resistere. Se c’è un film al quale World Trade Center in qualche modo somiglia, è Il segno rosso del coraggio di John Huston, tratto dal romanzo di Stephen Crane. Il film è poi archetipico come un’illustrazione di Norman Rockwell. E’ l’alba rosa a New York, nelle case squillano le sveglie, gli uomini della polizia portuale si alzano per andare a lavorare, la città è vuota, quieta e luminosa. Più tardi arriva la notizia, i poliziotti si bardano in fretta con caschi, zaini, bombole, dal finestrino del pullman vedono gli scampati, i feriti, il fumo, la nebbia, la polvere. Sul posto, sentono il rombo di altri crolli. Non tutti si propongono volontari per salvare i colpiti. Anzi, sono in pochi a seguire il sergente. Ancora meno, due (Nicolas Cage, Michael Pena) rimangono vittime di nuove scosse, frane, fuoco, macerie: paralizzati, possono soltanto parlare tra loro nel buio, soffrire per la sete e la mancanza d’aria, sperare di venir salvati. Alle loro immagini si alternano quelle delle famiglie che li aspettano tentando di non cedere alla disperazione. Uno dei sepolti crede di vedere il fantasma di Gesù. Le donne (bionda e bruna, bianca e nera) si abbracciano.Li salvano, con molte difficoltà. Un’autorità fa un discorso: «Questo episodio ha messo in luce che esistono uomini pronti a soccorrere altri uomini soltanto perché è una cosa giusta». L’istinto drammaturgico di Oliver Stone calibra i tempi molto bene, la sua maestria di regista rende la parte iniziale dei film molto efficace. A volte esagera, si sa. Inventa un personaggio simbolico eccessivo: un marine giovane, alto e forte in divisa che tutto solo cammina tra le macerie con l'autorità di un santo, avverte i richiami dei sepolti vivi, ne indirizza il recupero e si allontana, va in Iraq dove pure «servono uomini in gamba».Ma lo scoramento del regista per i morti e per i vivi suona sincero, non offensivo: la polemica di qualche associazione di neri che aveva accusato Oliver Stone di aver usato un attore bianco anziché nero pare caduta. Della qualità degli attori si può dire poco: ameno che l’accettare di recitare immobili nel buio non sia, anche quella, una qualità.

Ed ora tocca a me: A parte la critica di Stefania e la scena della "visione dell'acqua" a me questo film non è dispiaciuto, ovviamente molto bravo Nicolas Cage.

Alla prossima... ;)

Etichette:

martedì 14 novembre 2006

Qui Torino: L'equazione Picasso-Dubuffet



















20 Ottobre 2006 - 21 Gennaio 2007

Palazzo Bricherasio ospita, per la prima volta in Italia, la collezione della Fondazione Jean e Suzanne Planque: l’esposizione, curata da Florian Rodari, mette in mostra circa 100-130 opere tra dipinti e disegni dei più grandi artisti della prima metà del Novecento. La collezione, nell’eterogeneità ed insieme straordinaria coerenza delle opere, pazientemente raccolte nell’arco di cinquant’anni di vita, esprime in toto l’eccezionale qualità dello sguardo di Jean Planque e rende omaggio alle diverse sfumature della sua sensibilità. Straordinario insieme di capolavori, la collezione è meritevole di grande attenzione per l’oculatezza delle scelte operate dal collezionista e per la rara finezza di certe opere. Il pubblico avrà l’opportunità di ammirare lavori dei più importanti Maestri dell’Arte moderna (da Cézanne a Picasso, da Degas a Bonnard, da Van Gogh a Rouault, da Dubuffet a Klee) grazie ai quali potrà apprezzare l’efficacia e la profondità del linguaggio pittorico, confrontandosi con quella nuova ricerca espressiva, che rompendo con il carattere accademico imposto dalla tradizione, aprirà le porte allo sperimentalismo che caratterizzerà tutta la produzione figurativa degli anni successivi.Nel corso della sua sistematica ricognizione delle mostre nelle gallerie di maggior prestigio in Svizzera e a Parigi, alla ricerca di capolavori da acquistare per il gallerista Beyeler, Planque è riuscito a regalarsi ancora alcuni dipinti e disegni di impressionisti quali Gauguin, Van Gogh, Degas, Monet e Renoir. Lo speciale rapporto con la città di Parigi, che lo ha risvegliato all’arte, dà corpo ad un consistente nucleo di opere di artisti francesi, da Braque a Dufy, da Delaunay a Léger. Infine la collezione si arricchisce di due prestigiosi insiemi di opere di Picasso e Dubuffet, grandi amici di Jean Planque. L’aver “amato più i quadri che la vita” è una sorta di dichiarazione programmatica con cui Planque giustifica il suo approccio irrazionale e passionale all’arte. Quella stessa energia ed entusiasmo che armano il riscatto culturale di chi ha “fatto tutto da solo, partito dal nulla, senza cultura, senza mezzi economici”. Un favoloso destino che gli ha permesso di divenire, grazie soprattutto all’incontro con il grande gallerista di Basilea Ernst Beyeler, conoscitore raffinato delle opere in circolazione dei grandi maestri delle avanguardie, ma anche di conoscere e diventare amico di molti artisti. La sua, però, non è da intendersi solo come la carriera di un mercante, ma il suo è anche il destino di un collezionista animato dalla volontà di acquisire, conservare e proteggere il maggior numero di opere degli artisti più amati del tempo, ed evitare che la dimensione spirituale dell’arte sia eccessivamente contaminata da quella più materiale dell’economia di mercato. La dedizione totale ad una passione unica, la consapevolezza di aver rinunciato ad un futuro sereno per seguire l’irrazionale impulso che lo spinge a bussare alla porta delle gallerie, ad acquistare le sue prime tele, a dialogare con i più rappresentativi artisti della sua generazione, non fa altro che accrescere il fascino malinconico della figura singolare e per certi versi eccezionale di Jean Planque.

Nello specifico Picasso-Dubuffet...

Due gruppi di opere, curiosamente simmetrici, spiccano sul resto della collezione di Jean Planque. Picasso e Dubuffet sono rappresentati ciascuno da una ventina di lavori, scaglionati nel tempo – dal 1917 al 1970 per quanto riguarda Picasso, dal 1949 al 1984 per Dubuffet. Formatasi a partire dagli anni quaranta, e soprattutto dall’inizio della sua collaborazione con Beyeler, nel 1954, la collezione di Planque continuò ad arricchirsi anche dopo la fine di questo sodalizio, nel 1972, ad esempio con l’acquisizione di un Psychosite, una Mire e un Non-lieu degli ultimi anni di Dubuffet. Come giudicare l’insistenza di questo sguardo parallelo su questi due grandissimi artisti? Opposti in tutto, si direbbe se, a ben guardare, non si rivelassero, con l’aiuto delle note e dei ricordi di Jean Planque, il dialogo segretamente intessuto, i rapporti non immediatamente visibili che univano i due atelier, per il tramite dell’amatore a cui era concesso penetrare nell’uno (a volte) come nell’altro (molto spesso).Il suo rapporto con Dubuffet, che conosce e che contribuisce a far “scoprire” verso la metà degli anni cinquanta e con cui stabilirà ben presto un profondo legame di amicizia, è tuttavia diverso, sin dall’inizio, da quello con Picasso, che accorda (dopo il 1960) alla sua estrema sincerità il raro privilegio di alcune lunghe conversazioni nel suo atelier, davanti alle sue opere. In entrambi i casi, scatta immediatamente la molla della fascinazione, del coinvolgimento.

Alla prossima... ;)

Etichette:

lunedì 13 novembre 2006

Trovati 2 cuccioli!









Chiunque fosse interessato mi contattasse tramite blog!!!!!

Alla prossima... ;)

Etichette: